Partecipazione 2/2
Il seguente testo riassume i risultati di un’attività laboratoriale condotta con un gruppo di studenti e studentesse del corso di Culture e Società dell’Europa (prof. Paolo Grassi, A.A. 2023-2024) della Laurea Magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche dell’Università di Milano-Bicocca.
Attraverso due uscite didattiche, gli studenti e le studentesse sono stati chiamati a interrogarsi in particolare sugli esiti del processo partecipativo avviato nell’ambito del progetto LOC. Di seguito vengono riportati alcuni stralci delle relazioni finali prodotte. I testi sono stati curati da Camilla Ferrari, studentessa della Laurea Magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche e tirocinante presso lo spazio Off Campus San Siro per il laboratorio CURA lab tra il mese di marzo e luglio 2024.
Lo spazio di LOC2026 e la mobilitazione degli abitanti
Lucia Bocchi
Milano non è nuova a interventi urbanistici speciali, prima e dopo Expo 2015: dopo Piazza Gae Aulenti (2012), che ha ridisegnato il quartiere Isola e lo spazio ex Varesine, è stata inaugurata CityLife (2020) nel perimetro dell’ex-Fiera Campionaria. Entrambi spazi aperti al pubblico ma di matrice privata (multinazionali e istituti di credito). La differenza con Loreto è però fondamentale: non hanno al loro interno viabilità pubblica, mentre il grande piazzale è l’accesso a Milano da Nord, con otto vie che vi si dipartono. LOC2026 è il progetto vincitore del bando 2020 di “Reinventing cities”, competizione internazionale avviata da C40, rete di sindaci di circa cento città, per stimolare sviluppi urbani a zero emissioni di CO2 e per trasformare siti sottoutilizzati. Si tratta di un progetto metà pubblico e metà privato, poiché il comune ha delegato i lavori allo sviluppatore privato francese Nhood che, in cambio, ne ottiene la gestione economica e un ex edificio comunale.
Per far conoscere il progetto, nella piazza è stato creato un luogo apposito: nei primi mesi del 2023 vi si sono svolti incontri aperti con progettisti e sviluppatori e ora il pubblico vi accede per avere notizie di base; al suo interno, appoggiata per terra, si trova una gigantografia della futura piazza, che provoca l’effetto di camminarci già e, in più, vi sono pannelli e video. Nonostante questo spazio sia aperto otto ore al giorno per sei giorni (compresa la domenica), e dichiari esplicitamente l’intento di voler coinvolgere chiunque sia interessato, non si può dare per scontato che esso abbia favorito l’effettiva partecipazione delle persone, in particolar modo quelle che vivono quotidianamente la piazza per diversi motivi. Parlando con una giovane ragazza che lavora all’interno dello spazio si scopre che all’apertura di LOC2026, nel settembre 2023, nell’infopoint si è registrata molta affluenza; questa però nel tempo è calata drasticamente e ora chi entra chiede principalmente la data di inizio dei lavori e pone domande relative ai propri legittimi interessi. Non mancano le critiche a questo progetto, che in alcuni soggetti ha scatenato un malcontento: ma l’unica cosa che il cittadino può fare per esprimere il proprio dissenso, rivolgendosi direttamente all’infopoint, è di riempire il modulo-guida e lasciare la mail per essere aggiornato.
I vari soggetti trovano comunque il modo per esprimere la loro opinione e ricercare un proprio spazio di azione, ad esempio, tramite l’assemblea dei cittadini: sabato 11 novembre 2023 se n’è tenuta una dal titolo “Laboratorio Loreto – come e per chi cambia la città”, con un focus sull’accesso alla casa e sul caro-affitti. Ciò che emerge principalmente è la scarsa partecipazione nella definizione del progetto, soprattutto il mancato coinvolgimento dei cittadini e dei lavoratori della piazza. Infatti, dopo aver discusso vari temi, alla fine dell’incontro viene proposto di inviare una lettera aperta alle istituzioni e di fare azioni diffuse nei diversi quartieri.
Le brevi interviste svolte sul progetto LOC, per capire se le persone siano o meno informate, cosa ne pensino e quali aspettative (positive e negative) hanno, conferma ciò che è emerso in questa riunione. Due frasi emblematiche rappresentano il sentimento di esclusione «Tanto hanno già deciso tutto loro» e di disappunto «Cambiare Loreto ci voleva, ma non così». Dalle interviste, dunque, affiorano concreti i timori di negozianti e abitanti delle vie popolari circostanti, dove ancora c’è un tessuto sociale e commerciale misto e con le sue contraddizioni.
Nonostante gli intenti positivi e espliciti di coinvolgere coloro che saranno toccati dal progetto di rigenerazione urbana, questi non sembrano essere stati sufficienti per creare davvero un senso di partecipazione. Soprattutto perché, in realtà, si tratta di una contraddizione: si invita alla partecipazione a progetto già concluso, quindi senza davvero la possibilità di cambiarlo poiché ormai già stabilito.
Un’analisi della retorica di Nhood nella rigenerazione urbana di piazzale Loreto.
Elisa Casolari
Nella ricerca antropologia della rigenerazione urbana, che in questo caso interessa piazzale Loreto, la prima sfida riguarda un oggetto di studio processuale piuttosto che gli effetti tangibili e già esistenti. Questo implica indagare il flusso di un progetto, tra le ambizioni dei vari attori sociali: tra questi troviamo sia il privato, ovvero Nhood, che gestisce la realizzazione di uno spazio pubblico; ma anche le aspettative di chi effettivamente andrà a fruire e vivere quello stesso spazio. Non è sufficiente analizzare la negoziazione in una piazza già realizzata, ma bisogna soffermarsi su ciò che è avvenuto prima, nonché la “trattativa” per creare quel luogo, il ruolo dei vari attori e le loro interazioni.
In questo senso, come ci insegna la disciplina antropologica, è opportuno indagare e problematizzare la retorica di Nhood. L’agenzia di servizi immobiliari che si è occupata della rigenerazione di piazzale Loreto, sul suo sito internet pubblicizza questo progetto utilizzando rendering, immagini futuristiche e nessun verbo al presente. Viene inneggiato un triplo impatto positivo – sul pianeta, sulle persone e sulla prosperità – con quattro parole chiave: la trasparenza con partner e clienti; l’agire per inclusione sociale; l’ascolto attraverso il monitoraggio del territorio con ricerche qualitative per essere consapevoli dei bisogni concreti e per migliorare l’impatto positivo dei servizi offerti; e il rispetto per l’ambiente. Nonostante gli intenti dichiarati, la realtà appare diversa.
Innanzitutto, la retorica utilizzata per parlare delle città del futuro, ovvero le “Smart Cities” sottolinea solo i benefici e i lati positivi, assumendo che la tecnologia, in quanto associata al concetto di progresso, sia necessariamente un miglioramento. Questa visione però è idealizzata e parziale, in quanto non considera i processi di esclusione sociale che essa creerà in risposta al mercato neoliberista che si sta imponendo. Infatti, i modelli di business, stili di vita e consumo trasparenti e consapevoli tanto promossi, vengono messi davanti al concetto di “business oriented” (che niente ha a che fare con il benessere dei cittadini) e percepiti come parte di una “smartmentality”, ovvero interessi e stili di vita dei professionisti di ceto medio-borghese, sempre connessi all’interno di flussi globali di cultura e capitali.
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Inoltre, Nhood ha creato uno spazio apposito ai margini nella piazza, LOC2026, per diffondere la conoscenza del progetto, esponendo il rendering, ma questa comunicazione appare limitante e limitata, a partire dalla conformazione architettonica dello stesso spazio, poco accogliente, e degli orari circoscritti (da martedì a domenica, dalle 12 alle 20). È come se già nella loro costruzione strutturale, nella loro essenza di emblema del privato presente nel pubblico, LOC e le pratiche di diffusione del progetto, fossero escludenti e non progettate per essere il più raggiungibili e accessibili possibile.
In ultima battuta, uno degli obiettivi di Nhood è quello di costruire un’area destinata alla vita di comunità. Secondo la retorica di questa agenzia, che sostiene di “ascoltare il territorio”, l’interesse nel creare uno spazio destinato alla comunità deriva da un bisogno esplicitato dai cittadini. Anche in questo caso, però, la realtà appare diversa: infatti, a seguito di interviste fatte ad alcuni residenti del quartiere, nessuno ha parlato di comunità. Di conseguenza, la domanda che sorge spontanea è: quale comunità e chi la vuole? Per la creazione di una comunità collettiva in uno spazio urbano già costellato da comunità semiotiche differenti, che coesistono senza interazione sociale, forse l’azione di attori privati non è sufficiente.
Tra ricerca e applicazione. L’importanza dello sguardo antropologico e l’aspirazione ad un’antropologia applicata nei progetti di rigenerazione urbana.
Camilla Ferrari
Nei progetti di rigenerazione urbana il lavoro di equipe è una questione centrale, specialmente se il gruppo di lavoro è composto da figure professionali diverse tra loro, con background diversi (come urbanisti, designer, architetti, antropologi). Il dialogo interdisciplinare permette di affrontare uno studio con maggiore complessità, analizzando lo stesso oggetto da più punti di vista; diventa pertanto uno strumento necessario per affrontare la globalità delle sfide che si presentano in un progetto di rigenerazione urbana. Infatti, la sola prospettiva di architetti e urbanisti presenta dei limiti, e non è sufficiente per affrontare un progetto di rigenerazione urbana di grande portata, come ad esempio quello di Loreto, ma serve piuttosto una prospettiva olistica e multidisciplinare.
Se si cerca sulla pagina di Nhood, – società di servizi e consulenza immobiliare che ha vinto il bando internazionale C40 Reinventing cities per la riqualificazione urbana di Piazzale Loreto – si può constatare che tra i membri della squadra del progetto ci siano figure professionali inerenti al campo immobiliare, ma anche scienziati sociali ed esperti in discipline umanistiche. Nonostante sia esplicitata l’intenzione di unire più competenze, non viene però esplicitamente presa in considerazione la figura dell’antropologo e il contributo che potrebbe fornire attraverso le sue analisi e i suoi metodi di indagine. Mi chiedo quindi quale potrebbe essere il valore aggiunto di tale figura nell’ambito di progetti di rigenerazione urbana di tale portata.
L’approccio etnografico potrebbe fornire uno sguardo dal basso – ascoltando i punti di vista, le aspettative e i bisogni dei residenti – e integrandolo con una visione più ampia e complessa della realtà, che coinvolga più attori possibili che in modo diretto e indiretto intervengono nella realizzazione dei progetti, mettendo dunque in luce le contraddizioni e le zone grigie. L’etnografo, stando sul campo ed entrando in relazione con i suoi interlocutori, è in grado di indagare i loro punti di vista osservando le pratiche quotidiane, il modo in cui le persone danno un significato allo spazio in cui vivono e si muovono e le aspettative che hanno sui progetti di rigenerazione urbana. Questo permette al ricercatore di far emergere i bisogni delle persone e le loro voci, che spesso rimangono inascoltate anche quando si tratta di realizzare progetti urbanistici per il “benessere dei cittadini”. È infatti attraverso questa retorica che le istituzioni (pubbliche e private) cercano a volte il consenso popolare, senza però far partecipare davvero i cittadini stessi alla realizzazione dei progetti.
Se, ad esempio, prendiamo il caso di piazzale Loreto, sul sito che promuove il progetto di rigenerazione urbana LOC si può leggere come si cerchi una partecipazione dei cittadini attraverso degli eventi (LOC informa/incontra/ospita) e uno spazio “aperto a chiunque” per «conoscere il progetto e le sue evoluzioni, muovere i primi passi sulla piazza di domani e raccontar[e] come [si vorrebbe] vivere questo posto». Viene inoltre sostenuto che «un vero progetto di trasformazione urbana fonda le sue radici nella comunità». Il progetto vuole riconsegnare la piazza ai cittadini costruendo un «luogo progettato per essere vissuto, [in cui sviluppare] un nuovo modo di stare insieme e fare community».
La ricerca antropologica mostra, però, la contraddizione tra gli intenti di LOC e la realtà, analizzando una situazione in modo multi-scalare, guardando sia al contesto micro che a quello macro, analizzando dunque la totalità che è sempre complessa e contradditoria: la conoscenza del progetto non è qualcosa di scontato per i residenti, e di conseguenza nemmeno la loro partecipazione ad esso. Nonostante la retorica della costruzione di uno spazio aperto a tutti e dell’incontro con le idee e aspettative dei residenti, adottando una prospettiva diversa e avvicinandosi al contesto locale si può notare come le informazioni non siano arrivate in modo uniforme e la partecipazione risulti fittizia: essa non è basata sulla vera co-progettazione con i residenti, ma pare piuttosto uno strumento per far sentire coinvolte le persone in un progetto già stabilito “dall’alto”, producendo una partecipazione illusoria.
La collaborazione tra antropologia e istituzioni, nella realizzazione di un progetto di rigenerazione urbana, potrebbe essere fondamentale nel soddisfare le richieste di entrambe le parti, mediando tra gli interessi pubblici e privati e favorendo il benessere dei cittadini, partendo proprio dal loro punto di vista. Per fare questo è necessario un approccio critico – che metta in luce i lati negativi e quelli positivi di un intervento di rigenerazione urbana – che guardi alla globalità e che ragioni anche sulle conseguenze prodotte da un progetto del genere, il quale può svantaggiare certe categorie di persone già marginalizzate. Aprire uno spazio di ricerca su Loreto si presenta come un’opportunità per intervenire su un progetto ancora in evoluzione.